Poca commedia (molto) nera, ombre di finta critica sociale e salsa thriller per I care a lot,  cocktail cinematografico che il britannico J Blakeson serve al pubblico di Prime Video.

È lo Stato il primo e, si spera, poco consapevole connivente dei crimini di Marla Grayson (Rosamund Pike). Che non uccide ma, in qualche modo, seppellisce vivi anziani con problemi di salute fisica e mentale: da esperta incantatrice di serpenti manipola medici e giudici, diventa tutrice legale – o guardiana – dei malcapitati e li rinchiude in case di riposo disponendo dei loro beni e amministrandoli. Naturalmente a vantaggio suo e della sua partner di crimine e di vita Fran (Eiza González). Sul lavoro, non c’è spazio per etica o pietà.

I problemi iniziano quando Marla mette le mani su quella che, a prima vista, si presenta come innocua gallina dalle uova d’oro: Jennifer Peterson (Dianne Wiest), ricca, istruita, sola e senza parenti. Non molto avanti con l’età, ma niente che un favore al medico giusto non possa risolvere: una dichiarazione di presunta e incipiente infermità mentale, e la tappa successiva è un lussuoso, soffocante gerocomio con sequestro di smartphone annesso. Ma sulla rotta del bottino ricco e facile c’è uno scoglio imprevisto. Jennifer non è poi così sola, e ha pericolose amicizie.

Il marchingegno di sceneggiatura orchestrato da Blakeson ruota chiaramente intorno a domande sull’amoralità insensibile di una protagonista che in nome dell’emancipazione, purché danarosa, calpesta vite e diritti.

I care a lot

Ma nel tentativo di non allentare le redini del ritmo narrativo, I Care A Lot fatica a rimanere sui suoi binari man mano che prende velocità. La costruzione dell’intreccio è raggelante, eppure una volta sparata in orbita verso il suo spannung la storia non sempre riesce a mantenersi coerente. Perché se è credibile che una battitrice (semi) libera come Marla non si scomponga di fronte alle velate minacce di un avvocato (Chris Messina) che ha l’aria molto costosa di chi la sa lunga, è – forse – meno verosimile che dietro il sorriso nasconda il fisico e la fortuna di una wonder woman che persino la criminalità organizzata fatica a far fuori.

Così il film finisce per prendere una strada dalla direzione non chiara, mescolando dilemma morale e un gioco delle parti rovesciato. Non è ovviamente legittimo fare di Marla Grayson, anima nera che ispira ribrezzo sotto la bellezza estetica, l’eroina della storia; ma il meccanismo del racconto la tratta come tale quando si avvia alla conclusione: nel precipitare degli eventi, infatti, sarà lei a dover salvare la pelle contro un antagonista (Peter Dinklage) meno odioso di lei ma tutto chiaroscuri, e a mettere in pratica a modo suo la massima secondo cui la miglior difesa è l’attacco.

Tant’è che il tentativo che I Care A Lot fa per essere anche dark comedy fallisce su più fronti, annegando nell’unidimensionale antipatia della sua protagonista che, pur presentata in un affilatissimo ritratto al vetriolo, manca di un lato naturale, istintivo. Le sue azioni hanno logica e conseguenze, ma il film toglie loro colore scavando molto poco nel terreno delle cause, del retroscena che può aver trasformato Marla in un obbrobrio. Persino la sua love story – unico bagliore di umanità – finisce per rimanere piatta, oleografica.

Giustamente candidata al Golden Globe per questa prova, Rosamund Pike brilla nonostante tutto, armata di caschetto tagliente e sigaretta elettronica, e si tuffa impavida negli anfratti bui di una villain orribilmente unilaterale.

Basta poi un’occhiata a Dianne Wiest per farci capire che Jennifer non è chi sembra, e a Peter Dinklage per generare ambiguità.

Peccato che, a volte, fra l’ottimo cast germogli un noioso eccesso di cinismo. Forse la vera fortuna è che Blakeson si riservi di usarlo per l’ultima volta in un’attesa, godibilissima scena finale.

I care a lot



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